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Racconto di Olinda : "La mia Vita"

Sono la signora Tono Olinda nata il 25/9/1922. Ora abito nella casa di soggiorno per anziani autosufficienti “G. e A. Binotto” a Cavaso del Tomba via Roma 28, provincia di Treviso.

Vorrei raccontarvi alcuni momenti della mia vita.

Sono nata a Gorizia, mia madre era goriziana, si chiamava Elisabetta Ciuciat, mio padre si chiamava Pietro Tono, abitava ad Isola dell’Abbà, un paesino vicino Padova. Per lavorare si era trasferito a  Gorizia, dove incontrò mia madre. Dopo un breve fidanzamento si sposarono, ebbero tre figli, io la seconda.

Dopo alcuni anni passati a Gorizia mio padre pensò di ritornare nelle sue zone vicino a sua madre ormai anziana. Nacque un altrto figlio e la casa diventò piccola per noi, mio padre decise di cambiare casa, io non volevo proprio andare via, la mattina che dovevamo lasciare la casa io mi nascosi tutta rannicchiata in un angolo della cucina sperando di essere dimenticata, mio padre dopo avermi chiamata mi trovò, mi prese in braccio e mi portò via nonostante il mio pianto e mi portò nella nuova casa, una casa che aveva la luce a carburo (acetilene) ed era senza acqua.

Cominciò così la storia della mia vita, dovevo andare a prendere l’acqua fuori nella fontana pubblica con dei secchi che una volta riempiti pesavano più di me.

A sei anni cominciai ad andare a scuola con ai piedi un paio di zoccoli di legno. Nel 1928 faceva molto freddo e venne molta neve che mi copriva tutta. Per andare a scuola dovevamo spalare con fatica tutti insieme, con il babbo e  la mamma, la neve per aprirci un passaggio.

Andavo a scuola con una cartella di pezza fatta dalla mamma, nella cartella un quaderno e una penna da inchiostro e spesso quando si intingeva il pennino si faceva delle macchie sul quaderno.

La maestra come prima lezione ci dava da fare le aste da riempire tutta la pagina. Fui promossa e l’anno seguente andai in seconda. Anche là per quello che ci dava da fare la maestra ero bravissima. Ero in banco con una bambina che in casa aveva 7 sorelle che dormivano tutte in una stanza. Avevo preso i pidocchi, io avevo dei bei capelli lunghi, mia madre tutte le mattine mi faceva le trecce, ma con grande dispiacere ha dovuto tagliarmeli a zero, per poi coprirmi la testa con un berretto fatto a mano di colore verde. A scuola tutti mi ridevano dietro nei momenti di ricreazione quando si andava in cortile a giocare a “Tegna” e a correre mi lasciavano sempre indietro. Finì l’anno scolastico e fui promossa pronta per l’anno seguente per fare la terza. Ero bravissima, presi l’attestato di lode in quell’anno. A mezzogiorno finita la lezione ci davano da mangiare tutti in piedi su un lungo tavolone, ci mettevano una tazza di brodo e un po’ di pane. Io mi prendevo il pane e uscivo in cortile perché non mi piaceva quella sboba. Finito il pranzo ci radunavano per il doposcuola per fare del lavoro, chi ai ferri per noi bambine, poi in cortile per fare la ginnastica con i cerchi vestite con una maglietta bianca e la sottanina nera. L’anno finì, mia madre nel periodo delle vacanze mi mandò da un sarto per imparare a cucire, arrivò l’autunno per fare la quarta elementare cominciai ad andare a scuola come sempre, mi comportavo bene. Dopo due mesi la maestra mi chiese di cambiare per andare in un paese poco lontano, lo chiese ai miei genitori che dissero di si. Per me è stato un grande sbaglio cambiare paese e cambiare maestra, non rendevo più come dovevo e fui bocciata. Ho dovuto ripetere l’anno con scarso rendimento con la stessa maestra che non mi piaceva. Quando ha saputo poi che a scuola non ci andavo più mi diede la pagella con buoni voti. Finita la scuola mia mamma da quel sarto dove andavo quando avevo le vacanze. Quando cominciai ad andare a questo lavoro, sua mamma mi mandava a fare la spesa a un chilometro più avanti e io ci andavo a piedi, mi dava una piccola bottiglietta per prendere un’oncia di olio e del tonno. Un giorno, tornando, mi venne la tentazione di aprire il cartoccio e prendere ogni tanto un pizzico di tonno. La signora non mi disse mai nulla, si vede che andava bene così. Il sarto un giorno ci ha trattenuto più del solito al lavoro per finire un vestito per un signore che nella serata doveva andare al veglione di capodanno. Finito il lavoro con la sua mamma e altre due ragazze ci ha accompagnate dalla sua fidanzata che abitava poco lontano, ci ha invitati nella stalla, c’erano delle mucche che scaldavano l’ambiente e festeggiammo così anche noi,tra una risata e  l’altra, il nuovo anno mangiando castagne e patata americana e tornammo a casa alle sei del mattino.

Mia mamma, quando ritornavo a casa dal lavoro alla sera, mi faceva disfare delle maglie vecchie di lana per poi lavarle e stirarle e metterle in matassa per poi portarle all’unica zia sorella di mio padre che faceva la magliaia e abitava molto lontano, a Ponte S. Nicolò, un paesino dove è nato mio padre a Isola dell’Abà, noi abitavamo a Torre di Padova. Un giorno d’inverno mia mamma mi mandò dalla zia con mio fratello più piccolo in bicicletta, era molto freddo, quando siamo arrivati dalla zia tutti infreddoliti subito mi diede una tazza di latte caldo, ci levò le scarpe per scaldarci i piedi e mise le scarpe nel forno della stufa. Quando le ha tirate fuori si erano tutte ritirate, fu molto spiaciuta ma non potè fare niente. Tornai a casa con le scarpe in mano, quando mia madre mi vide si mise a piangere. Nei mesi seguenti continuai ad andare da questo sarto anche se a fine settimana mi dava molto poco, mia mamma era contenta lo stesso, così imparavo a cucire. Infatti avevo imparato a cucire i pantaloni e poi quello che era necessario per noi in casa, anche fare qualche abitino semplice per me. Arrivata a quindici anni dovevo andare a lavorare in fabbrica dove si poteva prendere uno stipendio. Mi presentai alla Viscosa dove lavoravano la seta, subito mi chiesero se ero giovane italiana, dissi di si e mi hanno subito assunta. Alla festa che facevano ogni anno conobbi un ragazzo della mia stessa età, guardandoci abbiamo provato simpatia reciproca. In seguito incontrandoci si faceva delle bellissime passeggiate in bicicletta, mi sembrava di essere una principessa che aveva incontrato il suo principe azzurro. Mi dava così gioia serena che al mio lavoro mi rendeva tanto che presi il primo premio, eravamo in 150 ragazze e si lavorava a cottimo.

A mia madre non piaceva questo ragazzo, aveva 15 anni e da poco gli era morta la madre, stava in casa con un fratello più grande che faceva il calzolaio. Mia madre fece di tutto per allontanarci.  Io rimasi ancora tre anni alla Viscosa, poi dovetti licenziarmi perché gli acidi cominciavano a darmi disturbi. A casa mia le ragazze dovevano lavorare. Pensai di andare a vedere in un laboratorio dove facevano confezioni da uomo, mi avevano consigliato di andare a vedere al campo d’aviazione a Padova, dovevo fare 10 chilometri di strada in bicicletta. Cominciai così il mio nuovo lavoro. Mi furono date subito 100 camicie da cucire a casa, un pacco enorme da mettere sul manubrio della bicicletta, con fatica le portai a casa, era di lunedì e dovevo consegnarle al sabato. Mi misi così con molto impegno, con una macchina da cucire a mano ne cucivo venti al giorno. Al sabato dovevo consegnarle, ma per loro non erano abbastanza e dovetti smettere. Vicino a casa, a pochi chilometri, avevano aperto un laboratorio che confezionava divise da militari, andai a vedere e fui subito assunta. Alla domenica mi piaceva andare a ballare, da noi le ragazze che andavano a ballare non erano ben viste. Io avevo mia sorella che faceva un anno meno di me e la domenica pomeriggio andava alle funzioni, dovevo andarci anch’io, ma di nascosto  da mio padre nel pomeriggio, finché lui andava all’osteria, Andavo a ballare. Una volta però è venuto a prendermi davanti alla sala da ballo e mi diede due schiaffi, e così dovetti smettere. Spesso a casa venivano due amici dei miei fratelli, avevano portato un giradischi “la voce del padrone”, quando ero libera ascoltavo la musica e ballavo da sola. Arrivò così a diciannove anni l’età di trovare marito perché se una ragazza rimaneva da sposare dopo i ventuno anni era una zitellona e nessun ragazzo la guardava. Mio padre aveva fretta di trovarmi marito, così mia madre e una vicina di casa che anche lei aveva un bel ragazzo di due anni più di me combinarono il nostro fidanzamento. Per mia madre era un ragazzo che prometteva bene, lavorava in fabbrica ai bottoni e faceva il tornitore meccanico. Io non ero innamorata di lui ma lo stimavo e così accettai. Intanto lui fu chiamato a fare il soldato di leva. A casa le mamme facevano progetti per il matrimonio. Avevano sentito che a chi si sposava mentre il ragazzo era a fare il soldato veniva dato un sussidio, così un giorno suo padre mi portò con due testimoni in comune a Padova, dove mi sposarono per procura, poi lui faceva le carte per farsi dare 30 giorni di licenza e si fece così il matrimonio in chiesa, era il 20 luglio 1943. C’era la guerra e nel mezzo della cerimonia suonò l’allarme e tutti ci rifugiammo sotto il campanile. Cessato l’allarme riprese la cerimonia e il parroco pronunciò le rituali parole “ora siete marito e moglie, andate in pace” e ci diede la benedizione. Siamo usciti dalla chiesa, io presi il suo braccio e lui teneva le sue braccia lunghe e distese come un baccalà. Io ero vestita con un bel vestito bianco e lui con un bel vestito nero, vestiti prestati da amici e parenti. Prendemmo la via di casa a piedi, c’era da fare più di un chilometro. Per strada tutti ci guardavano e a casa i vicini ci aspettavano per farci gli auguri, le donne in casa avevano preparato il pranzo. Io appena entrata dovevo levarmi subito il vestito bianco prima di sciuparlo per consegnarlo a quella che me lo aveva prestato. Appena ci siamo messi seduti a tavola sentii suonare alla porta, io mi alzai per vedere chi fosse, era una vicina di casa che si chiamava Salmira, in mano aveva un mazzo di fiori rossi, me li consegnò facendomi gli auguri e se ne andò in fretta, senza salutare nessuno, neanche lo sposo. Finito il pranzo quei pochi parenti, mio padre e mia madre se ne andarono a casa propria. Venne l’ora di andare a letto, mia suocera per mettere assieme la nostra camera mi cedette la sua, un letto di ferro e un comò alla buona, e mi prestò anche le lenzuola, loro si erano ritirati nel granaio con due cavalletti e un materasso pieno di foglie di mais. Venne così per noi la prima notte, non ci siamo dati neanche un bacio. Io al mattino mi alzai presto e andai giù in cucina, per le scale incontrai mia suocera con un vassoio e mi chiese dove andavo, perché doveva lei per prima entrare in camera nostra per farci gli auguri, usanza del paese, perciò mi mandò subito indietro. Bene o male passarono così i 30 giorni della licenza e lui tornò a gare il servizio di leva, era del genio elettricisti. Nella sua famiglia c’erano tre sorelle, Ida, Esterina e Maria, da sposare, e due fratelli sposati, uno aveva sei figli e uno ne aveva due, e in più i genitori. Io pensai finché lui era via di andare a casa da mia madre. Venne così l’otto settembre, tutti scappavano e così lui tornò a casa prima del previsto, io dovetti andare con lui senza nessun entusiasmo, ma ero sua moglie e dovetti fare il mio dovere. Io continuavo ad andare a lavorare dove spesso davano l’allarme e si doveva scappare in fretta. Eravamo vicini alla stazione del treno di Ponte di Brenta con vicino il ponte di ferro che attraversava il fiume Brenta e vicino c’era anche il ponte della strada statale che da Padova va a Venezia. Ci caricavano tutti in un camion e ci portavano fuori in campagna. Succedeva sempre all’ora che si doveva andare alla mensa, quando si ritornava ci davano quattro risi lunghi e freddi, io ero incinta e per mangiare qualcosa in più mi facevo dare un bicchiere di vino per fare la zuppa col pane. Mia suocera lo venne a sapere e mi rimproverò dicendomi che dovevo risparmiare per comperarmi le lenzuola. Una sera le sorelle di mio marito mi invitarono ad andare con loro  a Ponte Vigodarzere, ci fermammo davanti ad una caserma di soldati dell’aviazione, mi fecero entrare in un grande magazzino dove c’era il deposito della biancheria e ognuno di noi poteva prendere quanto poteva. Allora io presi delle lenzuola, ma quando arrivai a casa mi accorsi che erano tutti ad una piazza, e mi diedi da fare per unirle e farle da matrimonio e poi feci il punto a giorno e il punto gigluicio  il mio primo paio di lenzuola fatte così. Io continuavo ad andare a lavorare, la mia pancia cresceva tra un fuggi e l’altro e quando tornavo a casa ero stanca e mi sentivo molto pesante. In casa una delle cognate, quella che aveva sei figli, era di nuovo incinta, lei era robusta e fumava, anche mio marito fumava in camera e io dovevo alzarmi dal letto per aprire la finestra per far uscire il fumo, ma quando tornavo a letto lui mi diceva che ero una disgrazia e poi mi diceva “ voltate Gigia che te doparo”  (Voltati Gigia che ti adopero).

Un giorno scappai e andai da mia madre, intanto la guerra continuava, sopra di noi passavano i bombardieri che andavano a sganciare le bombe a Padova e ci facevano tremare dal terrore. Nel frattempo mio marito prese servizio come milite alla stazione ferroviaria. Mi mandò a casa una cognata facendomi dire che dovevo tornare da lui, che ero sposata e che avevo il dovere di seguire il marito altrimenti mi avrebbe denunciata per abbandono del tetto coniugale. Dovetti andare da lui. Ogni sera passava “pippo” che ogni tanto, qua e là, gettava giù una bomba, io avevo tanta paura, pensavo che presto dovevo partorire e non avevo voglia di soddisfare le sue esigenze, allora lui cominciò a battermi. Scappai un’altra volta, allora lui andò dai carabinieri a denunciarmi. Il maresciallo mi fece chiamare, in sua presenza gli feci vedere le botte nere che avevo. Il maresciallo rimproverò molto mio marito ma poi mi fece promettere di perdonarlo e di tornare assieme perché presto avremmo avuto il bambino e che le cose sarebbero cambiate. Quando uscimmo, strada facendo, non me la sentivo di andare più con lui e presi la strada che portava a casa da mia madre e lui se ne andò per conto proprio.

Il 21 agosto del 1944 partorii mio figlio, era piccolino, pesava due chili e mezzo ed era molto delicato con quello che avevo sofferto. Piangevo sempre, spesso mi veniva il convulso tanto da tremare tutta. Anche il mio latte era poco, avevo bisogno di tutto:  pannolini, zucchero, latte. Vicino a casa abitava una famiglia di contadini che aveva una mucca da latte, io non potevo uscire di casa,perché avendo partorito non si poteva uscire di casa prima che fossero passati 40 giorni. Mandai la mia sorellina con un bicchiere ma non le diedero niente. Io ero il disonore del paese essendo tornata a casa da mia madre, tutti ne parlavano, i parenti fecero di tutto per farmi tornare da mio marito, ma io non ci pensavo affatto. Visto che era un bambino che aveva bisogno di suo padre venne lui a casa mia, i miei genitori si ritirarono come potevano per darci la stanza a noi. Un pomeriggio siamo andati in chiesa per il battesimo del mio bambino e lo abbiamo chiamato Valter. Prima di uscire io mi sono inginocchiata davanti all’altare della Madonna pregando con devozione che mi aiutasse a mettere a p osto un po’ le cose, perché in casa mia non andavano per niente bene. Mio marito, da quando era entrato nella nostra famiglia con quella divisa superba, sembrava lui il padrone, aveva capito che i miei fratelli e mio padre non la pensavano come lui, così cominciarono a fare delle discussioni minacciandosi a vicenda. Mio fratello più giovane aveva 18 anni e gli diceva “ Io ti ammazzo” e mio marito ripeteva le stesse parole a lui. In casa c’era l’inferno. Venne il 21 settembre, trenta giorni dopo la nascita del mio bambino, quel mattino venne un ragazzo da noi che mi chiese se mio marito quella notte faceva servizio alla stazione ferroviaria di Barbariga di Vigonza. Io risposi di si e lui: “ Signora, questa notte in stazione c’è stata una rappresaglia, hanno ammazzato il capostazione e i due militi che in quella stazione facevano la guardia perché nessuno si avvicinasse ai treni mentre i tedeschi portavano via tutto di tutto”. Seppi così che mio marito era stato ferito e portato via con l’ambulanza, ma strada facendo era morto. Aveva 24 anni. Lo portarono in questura e lì fecero la camera ardente. Due giorni dopo lo portarono nella chiesa del nostro paese con tanti dei suoi amici in divisa,per dargli l’ultimo saluto, e poi fu portato in cimitero. Alcune sere dopo sentii bussare alla porta di casa, chiesi chi fosse, mi rispose la voce di un fratello di mio marito. Gli chiesi che voleva a quell’ora e mi alzai per aprire la porta, ma d’un tratto mi diedero uno spintone e con forza entrarono una dozzina di diavoli neri con i fucili in mano, chiedendo di mio fratello più giovane. Due di loro salirono di sopra, lo trovarono a letto, con la forza lo tirarono giù per la scaletta stretta di legno tra le urla di mio fratello e la disperazione dei miei genitori. Io avevo il mio bambino in braccio che piangeva, il comandante Baraco chiese chi fossi, gli risposero che ero la vedova del Volpato Riccardo, allora mi diede due schiaffi  e poi se ne andarono trascinandosi via mio fratello e lasciandoci con rabbia e dolore, minacciandoci di dar fuoco alla casa. Portarono mio fratello in un sotterraneo, tenendolo con l’acqua fino alle ginocchia per 15 giorni e incolpandolo della morte di mio marito. Gli fecero il processo, fu assolto per mancanza di prove, ma fu lo stesso portato nelle grandi prigioni a Padova e presero pure mio fratello più grande. In queste prigioni si doveva portare da mangiare ai prigionieri una volta la settimana, dovetti andarci io perché mia sorella lavorava alla Viscosa.  Venne poi l’inverno con la neve e dovevo fare 22 chilometri a piedi, con la bicicletta a mano, con due cassette che aveva fatto mio padre appositamente. Quando mi presentavo davanti alle carceri c’era una colonna. Qualcuno mi conosceva e diceva: “Ecco, è lei quella che ha fatto ammazzare il marito” e altri dicevano: “ È la sorella di quel partigiano”. Più volte, quando ero quasi arrivata per consegnare le cassette suonava l’allarme e allora si doveva scappare in fretta per andare sotto, nei rifugi dei grandi palazzoni della città. Io dovevo abbandonare la bicicletta e via di corsa giù per una scaletta stretta, e si rimaneva fino al cessato allarme, uscendo per fortuna trovavo sempre la bicicletta e di corsa si tornava a fare la fila perché chi arrivava prima consegnava prima la cassetta. Ognuno portava quello che poteva e poi si aspettavano le cassette vuote di ritorno. Durò così tre mesi, un giorno tutti i prigionieri furono destinati in Germania, ma per fortuna quel giorno, fatalità, fu bombardata la frontiera del Brennero e tutti i ragazzi scapparono, chi da una parte chi dall’altra. I miei fratelli presero la via della Francia e si incasarono in qualche famiglia. Passò qualche anno, mio fratello più grande aveva ormai l’età per fare il soldato, sentì il desiderio di venire in Italia per trovare noi della famiglia, il babbo e la mamma. Appena arrivato a casa, alla sera un suo amico venne a trovarlo dicendogli che doveva scappare subito perché i Volpato lo stavano cercando.

In fretta e furia mio fratello scappò e appena in tempo riuscì a passare la frontiera. Il mio bambino intanto cresceva, cominciai a fargli le pantofoline e i calzoncini. In casa c’era un paio di pantaloni vecchi di mio padre, li disfai, li lavai ben bene e pensai di fare qualcosa per il mio bambino, così gli feci i calzoncini corti e una casacchina col collettino bianco e quattro bottoncini bianchi, era venuto molto carino. Anch’io avevo bisogno di un grembiule tutto nero perché le vedove dovevano essere vestire di nero. Mi fecero conoscere un signore di quasi quarant’anni, faceva il commerciante ambulante, andava per i mercati con la bicicletta con un pacco davanti e uno dietro, dissero un benestante, ho trovato da lui il tessuto per farmi il grembiule nero. Mi sentivo distrutta come non mai, mi sembravo una nonna di 80 anni. Allora questo signore veniva spesso per casa, prendeva in braccio il mio bambino, lo faceva giocare. Un giorno mi fece la proposta di andare con lui. Viveva solo in una stanza in affitto. Mio padre mi disse: “ Che cosa aspetti a dirgli di si ? “  In casa nostra c’era tanta miseria, bisognava comperare tutto a mercato nero, per avere un po’ di carne per fare il brodo si doveva andare in mezzo alla campagna dove, di nascosto, ammazzavano le bestie, e pagarla bene. Questo signore veniva per casa, vendeva la sua merce in cambio e così si poteva avere lo zucchero, l’olio, la farina per la polenta. Io ci pensai un po’ e accettai di andare con lui. Ci siamo subito dati da fare per trovare una casa, la trovammo, ma non aveva l’acqua in casa, era fuori nel cortile, senza riscaldamento, il gabinetto era fuori a 20 metri, con un tetto di paglia e un buco con due traverse di legno per metterci i piedi e un letamaio sotto, allo scoperto. La chiave della porta era lunga 20 centimetri.

Per arredare casa siamo andati in qua e là per le famiglie e abbiamo trovato un letto da matrimonio, un comò e un guardaroba, per la cucina una stufa a legna, un tavolo che abbiamo dovuto sostenerlo perché appoggiasse bene per terra. Mio padre mi fece una credenza e un lettino per il mio bambino, così un giorno presi la bicicletta da uomo, ci misi sopra quel po’ di roba che avevo e il mio bambino e andai via col commerciante che poco dopo mi sposò. Dopo nove mesi nacque la bambina Adriana, pesava quattro chili e mezzo. Il lavoro di mio marito rendeva bene, comprò subito un camioncino millecento. Ogni tanto andavo anch’io con i miei bambini, si andava a Chioggia. Preparavo tutto per il mangiare, latte e caffè per i bambini, una buona minestra di fagioli e 2 uova sode per noi. Finito il mercato si andava in un posticino all’ombra e poi si andava a Sottomarina al mare, si apriva l’ombrellone del mercato e i bambini si divertivano molto nell’acqua, e noi due a prendere il sole. In quei tempi non c’era molta gente, era una bellezza vedere il mare pulito. Da lontano si vedevano in alto mare  delle belle vele bianche e questa spiaggia lunga, tutta per noi. Purtroppo questa gioia durò poco. Avevo 27 anni, un giorno mi venne una forte colica, mi portarono subito all’ospedale e fui subito operata al fegato: Coliciste calcolosa, mi levarono la bile con due calcoli grossi come due noci. Le operazioni a quei tempi erano molto dolorose, sono stata 9 giorni senza bere un goccio d’acqua, mia madre mi assisteva e mi bagnava le labbra con una garza, avevo le labbra tutte screpolate. Dopo 19 giorni mi mandarono a casa curva nella schiena. La ferita mi faceva male, con le mani sul petto iniziai a fare i lavori di casa, prendere l’acqua fuori nel cortile, governare i bambini, lavare i panni ecc. Mi ripresi abbastanza bene, ma dopo un anno sono stata operata di appendicite e due anno dopo ancora a causa di un fibloma al seno destro. Finalmente mi ero ristabilita bene e mio marito col suo lavoro guadagnava bene. Quando andava per i magazzini prendeva anche dei piccoli scampoli e io a casa confezionavo dei piccoli grembiulini per bambini. Riuscimmo così ad accumulare 2 milioni di lire e pensammo di farci una casetta. Mio marito comprò la terra intestata solo a suo nome. Venne costruita la casa, con acqua in casa, riscaldamento, bagno e anche il garage per la macchina. I miei figli crescevano, Adriana andava alla scuola sociale, Valter alla scuola di belle arti, era bravissimo, lo chiamavano l’artista. Nel posto dove avevamo costruito la casa c’era rimasto del terreno, dieci metri per sei, chiesi a mio marito di intestare quella zona a mio figlio che, essendo orfano di guerra, metteva la sua pensione in casa, ma lui mi disse di no. Io pensai che in un modo o nell’altro avrei sistemato la questione, mio figlio aveva la ragazza e volevo che restasse in casa con noi, con la fatica che si faceva in quei tempi a trovare un appartamento. Andai in comune, mi feci fare il permesso e cominciai così ad ampliare la casa. Veniva benissimo due appartamenti, uno sotto e uno sopra. Io non volevo più andare per i mercati, era un lavoro che proprio non mi piaceva. Nella casa c’era una stanza vuota, proprio davanti alla strada, con la saracinesca, decisi di mettermi in casa aprendo un negozio di scampoli. Cominciai a riempire piano piano qualche scaffale, mio marito andava avanti con l’età e i miei figli avevano ancora bisogno di essere aiutati. Purtroppo la mia salute non andava tanto bene, una notte mi venne tanto male, mi portarono subito all’ospedale, avevo la febbre a quaranta e mi sentivo scoppiare la pancia. Subito mi misero due borse di ghiaccio, unico rimedio che potevano darmi in quel momento. Passarono i giorni, mi fecero tanti esami, mi portarono da un reparto all’altro, anche in ginecologia, ma avevo sempre la febbre alta e tanti dolori. I mesi passavano, non mangiavo più niente. Una mattina svegliandomi vidi seduta vicino al mio letto una suora che mi teneva la mano e mi disse: “ Oh, sei tornata”.

Mi sembrava di essere tornata, si, da molto lontano, e di scendere dall’alto pian piano, dolcemente, mi sembrava di essere in paradiso. Ogni giorno dimagrivo sempre di più, avevo 37 anni, tutti i dottori ne parlavano di me e della mia malattia. Un giorno venne un medico di un altro reparto, mai visto prima. Cominciò a darmi una pastiglia e con quella mi andava via la febbre per 2 ore e poi ritornava. Il giorno dopo questo dottore ritornò e mi fece prendere mezza pastiglia al mattino e mezza alla sera ma la febbre tornava ancora. Il dottore decise allora di farmi prendere la pastiglia divisa in 4 parti, un pezzetto ogni 2 ore, e finalmente la febbre sparì. Avevo perso tutti i capelli, non si vedeva più nemmeno il segno delle labbra, ero diventata uno scheletro, solo il peso delle ossa, 38 chili. Cominciarono a darmi un po’ di latte, poi un po’ di minestra e a poco a poco mi ripresi Allora i dottori decisero di farmi gli esami del tubo digerente, allora lo facevano dando ai pazienti un “pastone” bianco che poi veniva eliminato con l’olio di ricino. Dagli esami riscontrarono che avevo fatto la peritonite in forma tubercolare con conseguenze alla pleure. Seppi che quella pastiglia che mi avevano dato era penicillina, e che io ero la prima a sperimentarla. In poco tempo mi rimisero in piedi e poi mi mandarono a casa. Erano passati quattro mesi e mezzo. Mi raccomandarono di non affaticarmi e di alzarmi dal letto mezz’ora al giorno. Mi è servito un anno per riprendermi, intanto avevo sospeso il lavoro di ampliamento della casa e avevo dovuto chiudere il negozio. La vicina di casa che aveva il negozio di generi alimentari comprò la mia licenza e dovetti svendere quel po’ di roba che mi era rimasta. Poco dopo mio marito si ammalò di bronchite asmatica e non potè più andare per i mercati, così ho dovuto farmi io la patente. In quei tempi le donne erano molto criticate, anche alla sera quando uscivo col motorino per andare a scuola per fare la guida. Nella mia famiglia non c’era tranquillità, dovevo fare tutto io. Mio marito andava sempre al bar a giocare a carte. Mio figlio, appena ha potuto avere la Vespa, usciva spesso  e andava a casa dai parenti di suo padre che gli misero in testa che sua madre aveva mandato suo fratello ad ammazzare suo padre. Io ero presa tra una cosa e l’altra e gli esami per la patente erano troppo pesanti. Nella guida mi rimandarono per non aver dato la precedenza a destra in un incrocio e mi si spense il motore. In tre mesi dovevo riuscire ad avere la patente a tutti i costi, mi presi così 15 giorni di riposo e andai in montagna ad Enego. Quando tornai mi sentivo in forma, ripresi gli esami di guida e fui promossa. Ero tutta soddisfatta, mi feci subito fare la licenza di commerciante ambulante. Venduto il camioncino presi una macchinetta Fiat Bianchina famigliare. Cambiai articoli, presi vestaglie da donna bianche e nere per le anziane e dei grembiulini da mettersi davanti in cucina. Il mio lavoro rendeva bene, solo che ogni tanto dovevo andare dal dentista per levarmi qualche dente e dovevo mettermi la mano davanti alla bocca quando parlavo con la gente. Andavo nelle piazze che frequentava mio marito, perché non era facile trovare altri posti, dovevo percorrere anche 75 chilometri al mattino presto, anche con la nebbia, per andare a Oderzo, Mogliano Veneto, Marghera e altri grossi mercati. Sempre molto freddo d’inverno e spesso dovevo abbandonare il mio banchetto per prendere qualcosa per riscaldarmi nel bar più vicino. Un giorno, il 25 di Aprile del 1968, mia figlia era andata in gita con le amiche e mio figlio a pescare di mattina presto, era la sua passione. Mio marito come sempre nel pomeriggio era al bar. Mi trovavo sola in casa in una giornata di riposo. Verso le due del pomeriggio sentii suonare alla porta e andai ad aprire. Si presentò un vigile urbano e mi chiese se sapessi dov’era andato mio figlio. Poiché quel giorno non era venuto a casa per pranzo gli risposi che forse era andato dalla fidanzata, lo faceva spesso. Il vigile mi disse: “No signora, suo figlio ha avuto un grave incidente e si trova ora al camposanto di Vigonovo, a Strà di Venezia”. Telefonai subito a mia sorella più giovane e mi portarono nella caserma di Vigonovo e mi chiesero se fossero stati i suoi parenti a fargli del male. Io non capivo più niente, per me era la fine del mondo. Mi portarono a casa, da giorni che non stavo bene, mi venne tanto male da portarmi subito all’ospedale. Nel frattempo portarono a casa mio figlio e gli fecero la camera ardente nella stanza dove avevo fatto il magazzino, ora vuota.

Io non ho potuto vederlo e nemmeno dargli l’ultimo saluto e l’ultimo bacio. Gli fecero il funerale portandolo in spalla in chiesa e poi anche al cimitero di Ponte di Brenta. Da anni aveva espresso questo desiderio di essere portato in spalla in caso di sua morte, da quando aveva accompagnato lui stesso un suo caro amico al funerale. C’era tanta gente, tutti gli volevano bene. Intanto io all’ospedale fui operata, mi fecero il taglio cesareo, mi tolsero la tuba destra e dei polipi nell’utero e pochi giorni dopo mi mandarono a casa, ero finita. Cercai di riprendermi al più presto, dovevo lottare ancora, avevo una figlia che ancora aveva bisogno di me. Dopo  pochi mesi ricominciai col mio solito lavoro, tutta vestita di nero andavo per i mercati, la gente mi chiedeva cosa mi rera successo, io non ero capace di rispondere e per evitare altre domande mi levai l’abito nero.  Una volta, finito il mercato, alla prima curva che feci mi cadde l’ombrellone per terra, mi ero dimenticata di legarlo sopra la macchina. Mi fermai, lo presi, era così grande che pesava più di me. Con fatica lo rimisi sopra la macchina legandolo alla meglio.

Al mercato di Marghera un giorno vennero davanti al mio banco un gruppo di zingari, uno voleva una cosa, un altro un’altra e a fine mercato mi trovai senza l’incasso della giornata. Dovevo finire i lavori che avevo iniziato e che avevo sospeso per la morte di mio figlio, purtroppo si doveva finire entro il termine stabilito. Per la morte di mio figlio avevo ricevuto un milione di lire dall’assicurazione sulla vita che lui aveva fatto poco tempo prima, e così potei terminare la costruzione della casa. Era venuta bene, due appartamenti, uno sotto e uno sopra. Mia figlia aveva il fidanzato, pensava di sposarsi e mi chiese l’appartamento di sopra che era libero. Io le chiesi un po’ di affitto, ma lei non accettò. Preferì pagare l’affitto in un’altra casa. A ventisei anni si sposò e dopo nove mesi ebbe una bambina che chiamò Raffaella. Tre mesi dopo morì mio marito, ed io rimasi sola. Non mi andava più di rimanere in quella casa, volevo uscire, volevo cambiare ambiente, così scrissi ad un’agenzia matrimoniale. Mi arrivarono molte lettere, ne ho scelto una di un signore della Romagna, precisamente da Alfonsine di Ravenna. Gli scrissi che volevo conoscerlo e poco tempo dopo si presentò. Era un signore di bella presenza, lo feci conoscere anche a mia sorella e a suo marito. Veniva spesso da Alfonsine a trovarmi e si facevano assieme progetti per fare i mercati nelle spiagge di Ravenna, lavorando solo d’estate. Diceva d’essere un ragioniere. Io gli credetti, però prima di decidere di andare con lui sono stata invitata da una delle sue sorelle per otto giorni. Tutto andava bene, erano gentili e rispettosi, così decisi di andare con lui. Subito trovammo un piccolo appartamento proprio in centro ad Alfonsine, presi contatto con un’agenzia per trasportare tutta la mia roba per poi lasciare libera la casa dove abitavo per affittarla. Cominciammo a vivere assieme, prendemmo una macchina più grande, una Polo famigliare, e della merce adatta per fare i mercati sulla spiaggia. Al mare, in piena stagione estiva, si lavorava bene, ma un giorno mi accorsi, uscendo dal mercato, che sotto la macchina c’erano due attaccapanni vuoti, e la cosa mi insospettì. Cominciai a tenere d’occhio il mio compagno e mi accorsi che, quando io andavo al bar per rifocillarmi, lui vendeva le vestaglie e si metteva i soldi in tasca, gettando gli attaccapanni sotto la macchina. In seguito venni a sapere che non era separato dalla moglie, ma che lei lo aveva buttato fuori casa perché andava a letto con la cognata. Non ci pensai due volte, andai da un falegname, mi feci insegnare a cambiare la serratura e, aspettato il momento in cui era fuori casa, la cambiai, poi presi la macchina e andai da mia figlia a Padova. Il giorno dopo ritornai ad Alfonsine, seppi che lui aveva cercato di entrare in casa ma non c’era riuscito, era andato dai carabinieri per farsi aprire la porta ma loro non lo fecero. Aveva fatto il demonio, mi dissero i vicini, era andato da una delle sorelle che abitava in paese, ma nemmeno lì lo aveva fatto entrare. La sera seguente lui andò nel ripostiglio dove si teneva la bicicletta, la prese per andare al bar, io lo seguii finchè entrò. A quel punto presi la bicicletta, trascinandola perché aveva la ruota dietro bloccata con la catena, e me la portai di sopra in casa. Cercò anche di portarmi via la macchina, ma non ci riuscì, perché il notaio si accorse che aveva falsificato la mia firma. Ancora una volta rimasi sola, la stagione era buona e cominciai a fare i mercati da sola. Un giorno si presentò a casa mia un signore, mi chiese se poteva entrare perché doveva parlarmi. Un signore anziano, pensai cosa potesse volere da me, ma per cortesia lo feci entrare.  Si presentò, disse che abitava a Taglio Corelli, una frazione di Alfonsine e aggiunse che aveva sentito dire che ero una brava donnina e che avrebbe avuto piacere di conoscermi meglio. Mi invitò fuori a bere un caffè e raccontò la sua storia. Era un coltivatore diretto rimasto vedovo di due mogli e gli era pure morto un figlio di 29 anni. Rimasto solo cercava compagnia. Ci lasciammo augurandoci di rivederci. Io un giorno presi la macchina e,  senza dirgli nulla, andai a vedere dove abitava. Si era costruito una bellissima casa nuova, ma abitava ancora nella vecchia con un figlio sposato e due nipoti maschi. Gli feci una sorpresa, entrai nel cortile, lui era in campagna a potare i frutteti. La mia visita gli fece veramente piacere, mi presentò a suo figlio e alla moglie di lui, e mi fece vedere la casa nuova, poi mi chiese se volevo andare ad abitare con lui. Rimasi senza parole, pensai che fosse solo un sogno. Un uomo ancora piacente, una casa nuova, non mancava nulla. Avevano mucche nella stalla, un vitellino appena nato, polli, conigli, una settantina di colombi che svolazzavano e anche un cane, un collie che si chiamava Lessi, e vino a volontà.  Perché non andarci ? Aveva 10 anni più di me, io 56 e lui 66, si chiamava Andrea. Accettai e andai a casa sua. Suo figlio mi aiutò a trasportare tutta la mia roba e pochi giorni dopo mi sposò. Siamo andati in comune di Alfonsine, il sindaco mi fece tante domande, gli dissi che ero vedova per causa della guerra e che risposandomi la seconda volta avevo perso la pensione. Lui mi disse che ora la legge era cambiata e che alle vedove di guerra la pensione sarebbe sempre spettata. Lui stesso mi fece le pratiche necessarie. Dovetti aspettare 10 anni, ma poi mi mandarono gli arretrati e da allora, ogni mese, mi arriva la pensione. Passato un breve periodo siamo andati in chiesa a fare la cerimonia religiosa. Il prete che ci ha sposati aveva organizzato in quei giorni una gita turistica alla quale abbiamo partecipato anche noi, così abbiamo fatto il nostro viaggio di nozze, destinazione Spagna. Fino a Genova siamo andati in pulman, poi abbiamo preso la nave. Appena saliti mi accorsi che la nave si muoveva piano piano, per noi era tutto bello, dal nostro oblò si vedeva da lontano un grande barcone e tanti gabbiani che seguivano la nave. A bordo c’erano dei suonatori che cantavano e ballavano, c’era un grande ponte con tante poltrone e si poteva passeggiare intorno. Siamo sbarcati a Barcellona e abbiamo ripreso il nostro viaggio in pulman. Abbiamo viaggiato sugli altipiani e ogni tanto si vedevano dei grandi tori raffigurati. Ci siamo fermati nella grande città e abbiamo visitato un grande castello che si affaccia sul mare. Tornammo a casa nella stagione di raccota della frutta. Venivano da noi una ventina di operai, tra una battuta e l’altra si raccoglieva la frutta e, a sera, si rientrava a casa stanchi, ma io ero felice, mio marito mi trattava bene e io mi ci ero affezionata. Più volte veniva a trovarmi mia figlia con i suoi bambini, rimanevano anche qualche giorno e si divertivano a correre per la campagna con il cane Lessi. Una domenica vidi arrivare nel cortile un pulmino, c’era mia sorella più giovane, Franca, con la mamma e un gruppo di amici. Mi fecero una graditissima sorpresa, ognuno di loro aveva portato, in una borsa, il necessario per preparare un bel pranzo, chi il riso, chi le braciole, la verdura cotta, la polenta e un buon ragù, io feci i cappelletti, usanza tipica romagnola. Gli uomini si diedero da fare a trovare tavolini e panche, visto che lì in campagna non mancava mai nulla per sedersi fuori sotto la tettoia; poi accesero il fuoco nel camino del garage e noi donne ci demmo da fare per cuocere i cappelletti, la carne, scaldare la polenta. Quando il pranzo fu pronto mio marito mise in tavola un buon vino. Si, il pranzo sembrava un pranzo di nozze, era bellissimo, una giornata che io non ne avevo mai vissute di uguali in tutta la mia vita. A sera, ognuno mise a posto le sue cose e tutto finì con saluti e abbracci, e ognuno andò a casa sua.

Per un paio d’annj le cose andarono bene, io e mio marito si partecipava a qualche festa campagnola, ma la moglie di suo figlio non mi aveva accettato troppo bene, perché non ero romagnola e perché, sposando suo suocero, le avevo portato via la pensione che lui prendeva e il portafoglio che prima era a sua disposizione. Temeva anche che io gli portassi via la sua terra e cominciarono così le discussioni. In casa mia le cose non andavano più tanto bene, mio marito si lasciava influenzare da loro. Cercai di farle capire che non volevo portarle via nulla, e ricordai che il giorno che ci siamo sposati il parroco mi aveva chiesto davanti a testimoni cosa volevamo fare con la proprietà e io dissi che la sua proprietà restava sua e le mie restavano mie (separazione dei beni). Andammo da un notaio per stabilire che mi dessero un vitalizio e l’appartamento a mia disposizione, e così fecero. Ogni mese a mezzo banca mi arrivava la somma prescritta nel rogito. Con mio marito si discuteva anche per le camere da letto, lui perché aveva le sue delle mogli precedenti e io perché avevo la mia, e così dopo 17 anni ci decidemmo a comperarne una di nuova. Siamo andati in un negozio là in paese, lui stesso ha scelto la camera che gli è piaciuta. A casa abbiamo cominciato a disfare quella vecchia per far posto a quella nuova, ma a mio marito venne una forte tosse, chiamai suo figlio e decidemmo di portarlo all’ospedale. Era un po’ sofferente di cuore, mentre stavo per mettergli le pianelle ed era seduto sul letto, all’improvviso lo vedo scivolare giù piano piano. Rimase così, aveva 83 anni. Rimasi sola di nuovo, erano morti anche i miei genitori: mio padre aveva 80 anni, mia madre aveva da poco compiuto 93 anni.

Mia figlia un giorno mi fece una telefonata dicendomi che la casa che avevo costruito aveva necessità di riparazioni per metterla a norma di legge, ma io non ci tenevo a fare delle spese, oltre tutto quella casa non mi piaceva più, era troppo sulla strada dove passavano in continuazione macchine e camion, si doveva sempre tenere la finestra chiusa. Decisi pertanto di venderla e incaricai mio genero, visto che loro abitavano vicino. Era intestata a mia figlia, io avevo solo l’usufrutto di un appartamento. Mio genero fece presto a venderla e ne ricavò 200 milioni, che io lasciai interamente a mia figlia in considerazione del fatto che dove abitava pagavano l’affitto. Io da parte avevo altri 100 milioni che avevo preso con gli arretrati della pensione di guerra. Con l’aiuto dei genitori di lui, mia figlia e suo marito si comprarono una bella villetta costruita da pochi anni, aveva doppi vetri alle finestre, tende da sole, tre bagni, una tavernetta,  grande garage un bel giardinetto e un pezzo di terra per farci un orticello, il tutto recintato e con cancello automatico.

Mia figlia soffriva da anni di depressione, a volte non sapevo come prenderla, così con felicità ho dato tutto quanto potevo per vedere se potevo rimediare a qualcosa. A voce ci accordammo che, in cambio di quello che avevo dato, loro mi dessero qualcosa ogni mese. Intanto fecero il cambio di casa e tutto andava bene. Ma una mattina mio nipote mi fece una telefonata e mi disse di andare subito da loro, senza dire altro. Presi la macchina, percorsi 130 chilometri e arrivai. Mia nipote mi corse incontro disperata e abbracciandomi mi disse: “La mamma non ce l’ha fatta”, poi mi spiegò il dramma. “Stavo rientrando da scuola, non vidi la mamma che mi aspettava come sempre, la chiamai ma non ebbi nessuna risposta, andai di sopra e vidi che la porta del bagno era chiusa a chiave. Chiamai un vicino di casa e dovemmo rompere un vetro della finestra del bagno passando dal terrazzo per entrare. La mamma era lì dentro, si era impiccata, era ancora calda. Chiamai subito il 118 ma ormai era troppo tardi”. Portarono via mia figlia per l’autopsia e dopo 4 giorni le fecero il funerale con tanta tanta gente e tantissimi fiori, tutti le volevano bene. Io rimasi con i miei nipoti pochi giorni, tutta imbambolata e stordita, non mi sentivo di stare di più con loro, mi trovavo fuori del mio ambiente, ho sempre vissuto lontano da loro, non conoscevo le loro abitudini, tornai a casa mia. In quel periodo scadevano i 30 anni dalla morte di mio figlio, dovevo farlo levare dal loculo e in quel cimitero non c’era più un posto libero per metterlo nell’ossario. Fui costretta a portarlo fuori, lo feci cremare e lo misi assieme alla sorella. Passò qualche tempo, mia nipote si sposò, mio genero si risposò, mio nipote ancora studente rimase in casa con la sua madrina. Io più sola che mai un giorno presi la macchina e andai a Padova a trovare un’amica, anche lei sola, così chiacchierando del più e del meno, ci venne l’idea di andare in casa di riposo. Mi sarebbe piaciuto andare da quelle parti per essere vicina ai miei figli, per portare un fiore sulla loro tomba. Presi subito l’elenco telefonico per avere un’idea di quanto lontane potevano essere queste case di riposo, ma poi ci andammo di persona. Siamo andate a Padova, dove c’era anche mia sorella, al Nazareth, ma mi sembrava una prigione. Siamo andate a Trebaseleghe, ma lì non ci potevano accettare perché volevano solo non autosufficienti. Continuando nella nostra ricerca siamo andati un po’ più lontano, circa una settantina di chilometri, e siamo arrivate a Cavaso del Tomba, abbiamo chiesto in una ma anche quella era per non autosufficienti, poi finalmente abbiamo trovato quella giusta che faceva per noi, nel cancello c’era scritto “Casa soggiorno per anziani autosufficienti”. Siamo entrate e subito ci hanno accolte. Mi hanno fatto vedere la stanza che doveva essere per me sola, una cameretta singola con finestrella in bagno, una bellissima terrazza dalla quale in lontananza si vedeva il Grappa e il tempio del Canova e ancora, di fianco, una grande villa. Ci siamo subito accordati con il direttore, potevo entrare anche subito, ma dovevo tornare a Caglio Corelli e fare 200 chilometri per prendere quella poca roba che poteva stare in una stanza sola. Decisi di dare tutto a mia nipote, camera da letto nuova, sala da pranzo, cucina, lampadari, dei quadri che io avevo fatto a mezzo punto. Uno raffigurava l’ultima cena, da tempo lo avevo dato a mia figlia, ma ora che mio genero si era risposato lo aveva messo in garage. Un capolavoro grande un metro e mezzo, fatto a regola d’arte, così me lo sono ripreso e l’ho portato alla casa di riposo, e tutti hanno modo di ammirarlo. Nel nuovo ambiente ho preso subito confidenza e cominciai ad impegnare il tempo libero a fare lavoretti di passatempo, fiori con le calze, con perle, altri quadretti a mezzo punto. Mi sono arredata la mia cameretta a mio piacere.

Un giorno c’è stata un’ispezione, per caso capito nella mia stanza il ministro Sacconi, mi fece i complimenti e io gli donai un piccolo quadretto fatto da me con del filo, mi diede anche un bacio. Qualche volta vado in comune, al ritrovo degli anziani, si gioca con la tombola, ma ho fatto molte amicizie anche fuori. Tengo ancora la macchina e vado spesso a portare un fiore sulla tomba dei miei figli, però devo percorrere 70 chilometri. Partecipo a qualche gita in comitiva, sia in giornata che al soggiorno per 15 giorni al mare. L’anno scorso sono andata in Croazia in comitiva con 50 persone con pullman di gran turismo, fermata fissa a Rovigno, poi a Parenzo e tutti i giorni si usciva presto al mattino, si andava a Guirignano alla chiesa di S.Vito e poi a Pola, con cicerone che spiegava tutta la storia della Renna che io ricordo poco a parole, ma mi rimane impresso tutto quello che ho visto. Una mattina ci siamo alzati presto più del solito e dopo aver fatto tanta strada ci siamo fermati in una zona residenziale dove c’erano delle casette in schiera tutte bianche e recintate, con un bel giardino con tanti fiori e una grande piscina con sdrai tutti bianchi, nel prato c’erano tanti giochi per bambini. Siamo entrati in un grande salone con le pareti perlinate e il soffitto con grosse travi di legno, in fondo un caminetto acceso e a fianco due ragazze che suonavano e cantavano, due tavoloni lunghi e delle lunghe panche per sedersi. Nell’attesa del pranzo nei tavoloni erano preparati dei grandi piatti con del prosciutto, olive, cipolline, pane fatto in casa, un po’ di tutto. Finalmente arrivarono i primi piatti, una buona minestra di fagioli freschi con tagliatelle fatte in casa, alla veneta, proprio come piacciono a me, poi braciole di maiale con polenta, contorni di fagioli freschi, verdura cotta e cruda e poi, per finire, frittelle e galani e caffè corretto. Siamo rimasti fino a sera, ballando e cantando. Io con me avevo mia sorella Franca che ha 16 anni meno di me ed è brava a ballare. Il giorno dopo abbiamo ripreso il viaggio per il ritorno a casa. L’anno scorso sono andata in Svizzera a vedere il mercatino di Natale, ma non mi è piaciuto proprio niente, c’erano delle banche quasi tutte uguali, tutte di bigiotteria. Un posto così freddo e poco illuminato, mentre qui da noi in Italia è festa e allegria dappertutto. Ritornata a casa, le mie cose del passato tornano sempre. Dopo otto anni che mia figlia è morta, mio genero ha sempre mantenuto la parola data di passarmi quelle quattrocentomila lire al mese, ma un giorno mi ha chiamata per dirmi che doveva fare dei sacrifici perché ha tante spese e che ha un figlio da sposare e che la casa era intestata a mia figlia. Io gli ho risposto che se lui dovesse pagare l’affitto gli costerebbe molto di più di quello che da a me e che lui si è comperato la casa perché io ho firmato, e che ho dato tutti i miei risparmi, ho firmato nella vendita della casa che ho fatto io con le mie fatiche. Un giorno ho scritto a Forum, a Rete 4, dove c’è il notaio (giudice) Santilicheri, sono venuti di persona qui a Casa di riposo, mi hanno intervistata, mi hanno risposto con una cassetta registrata, che quello che avevo dato a mia figlia è stato un atto di donazione e che dopo poco che è morta potevo aver richiesto tutto quello che ho dato. Anche mia nipote ha detto che io ho dato tutto a mia figlia senza volergli bene e mi disse ancora che non disturbassi suo padre se ho bisogno di soldi per andare al mare ma che li chieda a lei con voce alterata. Le mandai questo scritto ma non ho avuto nessuna risposta. Non si può raccontare una vita vissuta 84 anni in quattro righe.

Ricordo ancora qualche episodio: appena licenziata dalla Viscosa, avevo 18 anni, mia madre mi cercò un lavoro come donna di servizio da una famiglia dove c’erano due bambini da custodire. La signora era sempre fuori, dovevo fare da mangiare per tutti, a mezzogiorno quando tutto era pronto mi metteva nel cucinino a mangiare da sola. Io avevo i suoi bambini tutto il giorno, li lavavo, li custodivo tutto il giorno, gli davo le merendine ma quando erano tutti a tavola mi mettevano sempre a parte. Al mattino dovevo svegliare il marito, portargli la colazione in camera  e accendergli la sigaretta. Una mattina gli misi la sveglia che si svegliassero da soli, presi la mia tessera e scappai via.

Un altro episodio prima della (guerra?) quando avevamo ancora la tessera che più di quello non si poteva avere. Ero fidanzata con quello che poi divenne mio marito, un suo fratello aveva 6 bambini, era fatica tirare avanti. Una sera siamo andati nella campagna, a Camposanpiero, a rubare patate e fagioli, si doveva attraversare un grande fossato con dell’acqua, ma uno di loro si mise gli stivaloni per poi farmi passare di là uno alla volta, eravamo in 6 e poi con i sacchi pieni nel silenzio si ritornava. Strada facendo alla mia bicicletta si era sgonfiata una gomma, così dovetti fare molta strada spingendo a mano la bicicletta con il carico sul manubrio, con molta fatica siamo arrivati a casa alle 3 del mattino.

Un’altra cosa mi viene in mente, lo stesso in quel periodo io e mia sorella Alice si andava per i mulini in cerca di un po’ di farina per fare la polenta. Strada facendo per le campagne, ad un certo momento una ventina di anatre ci attraversò la strada, e io scesa dalla bicicletta ne presi una e la misi nella borsa, e poi via, avanti. Quando siamo tornate con mezzo chilo di farina abbiamo fatto la stessa strada. Appena arrivati alla casa dove avevo preso l’anatra, tutto ad un tratto, quella che avevo nella borsa si mise a starnazzare e le sue amiche le rispondevano. Venne fuori di casa il padrone con il forcone, urlando “Eccole, eccole quelle che hanno preso l’anatra” e noi due a correre più forte di lui.

Tra i tanti episodi che mi sono successi voglio raccontare anche questo. Quando abitavo ad Alfonsine di Ravenna nella casa grande in campagna e non c’era frutta da raccogliere, mi dedicavo a fare lavori con l’uncinetto, con l’intenzione di fare un copriletto bianco di cotone grande, per il letto matrimoniale. L’avevo già cominciato quando una mattina presto, portando da mangiare ai polli, sono scivolata per terra e mi sono rotta un braccio. Sono stata ingessata per 30 giorni e così dovetti smettere e mettere da parte il lavoro. Passati i 30 giorni mi levarono il gesso e ricominciai. Passò la primavera e tutto l’estate, ritornò l’inverno e scivolando caddi di nuovo e mi ruppi anche l’altro braccio e così di nuovo dovetti smettere il mio lavoro. Ma non mi persi di coraggio e infatti, appena tolto il gesso mi imposi di finire quel copriletto. Dopo 2 anni finalmente lo terminai, bellissimo, tutto intero, a punto filè con un grande disegno nel mezzo che raffigurava un vaso con dei fiori, che si apriva prendendo tutta la sua larghezza. Ora l’ho regalato a mio nipote Riccardo che presto si sposerà e lo metterà nel suo letto matrimoniale.

Poco dopo ho dovuto essere operata alle vene alla gamba sinistra e poi… e poi siamo ancora qui che tiro avanti facendo del mio meglio, tengo ancora la mia macchinetta e il 25 settembre ho compiuto 84 anni.

Ringrazio tutti quelli della (Lita) che mi avete dato la possibilità di mettere per iscritto ricordando il mio passato che non sarà mai dimenticato.

 

                                                                                          Olinda Tono

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Paola Canova
Artista
 
"Luce dell'Anima"